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A grande richiesta proponiamo, a puntate, il libro “La Grande Truffa” di Paolo Maleddu, uno di noi, un grande uomo che per il suo coraggio, la sua lealtà e la sua voglia di verità si trova oggi sotto l’attacco duro e sleale dello Stato italiano, uno Stato burattino delle lobbies bancarie internazionali

 

 

 

 

 

 

Paolo MALEDDU: “Ho scritto questo libro per una incontenibile necessità di condividere con quante più persone possibile un insieme di informazioni nelle quali mi sono imbattuto, e che hanno gradualmente aperto davanti ai miei occhi una visione del tutto nuova della realtà del mondo nel quale viviamo.
Una realtà insospettata, spaventosa, nella quale siamo immersi ma che non riusciamo a vedere, perché confusa dietro una barriera di notizie ed immagini sapientemente filtrate, falsate o anche solamente ignorate.
Le notizie che non vengono divulgate sono le più importanti.
C’è un mondo reale nel quale gli eventi scorrono così come avvengono, lieti o dolorosi che siano, in un flusso continuo. E uno parallelo, virtuale, creato dalla rappresentazione che i media danno di questa successione di eventi.
Noi viviamo nel mondo virtuale che ogni giorno radio, giornali, televisioni e cinema costruiscono per noi. “Educati” sin dai primi anni di scuola ad essere prigionieri di verità ufficiali, ci è poi difficile accettare versioni diverse, scomode, che non rientrano nei nostri orizzonti.”
“Esistono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che si insegna “ad usum Delphini”, e la storia segreta, in cui si rinvengono le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa.”

 

La Grande Truffa – 1° parte                                      La Grande Truffa – 2° parte

La Grande Truffa – 3° parte                                      La Grande Truffa – 4° parte

La Grande Truffa – 5° parte

 

 

 

L’emissione monetaria

LA GRANDE TRUFFA

Come gli usurai internazionali si impossessano
di tutta la ricchezza prodotta dalla popolazione mondiale

6° parte

 

 

 

………..

Ha potuto creare un sistema mondiale nel quale il lavoro viene pagato una miseria, mentre viene largamente retribuito l’interesse sul capitale che già in precedenza aveva provveduto ingiustamente a sottrarci.

La moneta appartiene al popolo e ad esso, per il bene dell’umanità, deve tornare la proprietà.
I pescatori si occupano da sempre di andare a pescare, muratori ed ingenieri costruiscono case, ponti, strade; gli operai producono beni nelle industrie manifatturiere, l’intera popolazione mondiale fa tutto il lavoro fisico mentre un esiguo numero di persone da oltre tremila anni si occupa di studiare i meccanismi che danno valore ad un pezzo di carta colorata chiamata moneta.

Oggi con quel biglietto decidono loro, non i produttori, i prezzi dei beni prodotti, gli stipendi degli operai, il costo degli alimenti, quale sarà la storia ufficiale, quale cultura diffondere, dove far scoppiare una guerra, chi far vivere agiatamente e chi ridurre alla fame.
Sono i padroni del mondo.

 

Capitolo III

CHE COSA È L’ECONOMIA

Presupposto indispensabile per affrontare e capire qualsiasi argomento è avere certezza del significato dei termini usati.

Apriamo a tal scopo qualche dizionario della lingua italiana alla parola economia e leggiamo:
dal greco oikomanìa, propr. amministrazione della casa; scienza della scarsità intesa come disciplina logica e prassi comportamentale diretta a realizzare i massimi risultati impiegando i minimi mezzi; l’utilizzo di risorse scarse per soddisfare al meglio i bisogni individuali e collettivi contenendo la spesa; scienza che studia come impiegare i beni a disposizione nel modo più razionale per il conseguimento di fini determinati; uso controllato dei beni economici; risparmio; insieme delle risorse economiche di una regione.

L’economia è quindi una oculata ripartizione tra tutti i membri di una comunità (famiglia, società, regione…) dei mezzi di sostentamento disponibili, per soddisfare bisogni individuali e collettivi.
In una economia familiare saranno i membri della famiglia a beneficiare di una equa ripartizione della ricchezza o dei pochi beni disponibili. In una economia statale od in quella mondiale, l’obiettivo sarà quello di far arrivare a tutti i componenti di tali comunità i benefici, giustamente ripartiti, derivanti dallo sfruttamento delle risorse comuni.

In estrema sintesi, il processo economico di uno stato moderno si sviluppa in tre fasi successive: produzione, distribuzione e consumo di beni e servizi. L’attuazione in maniera armonica di queste tre componenti, producono come risultato una sana ed onesta economia.
Prendiamo in esame una per una queste diverse fasi in una economia statale.

Con tutta sicurezza possiamo affermare che il problema della produzione è ormai risolto da tantissimi anni.

Già nel lontano 1933 Ezra Pound scriveva nel suo “Abc dell’economia”:

“Tecnici sensati ed uomini saggi ci dicono che il problema della produzione è risolto. Lo stabilimento produttivo del mondo può dare tutto quello di cui il mondo ha bisogno.
Non c’è la minima ragione per dubitarne”.

Oggi questa certezza è confermata dalla straripante offerta di merci di ogni genere che riempiono gli scaffali dei centri commerciali, dalla supposta necessità di limitare la produzione di prodotti alimentari od addirittura l’assurdità di dover distruggere quantitativi di scorte alimentari già prodotte allo scopo di mantenere alti i prezzi.

Il problema è risolto grazie soprattutto all’enorme impulso alla produzione dato da un avanzamento tecnologico inarrestabile da quando “ . . agli inizi del 1765, uno scozzese, James Watt, ideò la macchina a vapore, che fu accoppiata al meccanismo di un telaio di cotone. Iniziava la rivoluzione industriale”.

In questo evento vede Joaquìn Bochaca, nel suo “El enigma capitalista”, l’inizio del cambiamento che ha consentito nel corso degli anni un incremento impressionante della forza lavoro. Con l’apporto delle macchine, l’uomo è riuscito a moltiplicare le sue forze fisiche, e di conseguenza la produzione di una gran quantità di merci con sempre meno impiego di lavoro umano.
Il continuo avanzamento tecnologico consente una maggior produzione con l’impiego di meno lavoratori.

Chi potrebbe non vedere un vantaggio in tale situazione ?
Chiunque non vedesse un qualcosa di positivo in un tale netto miglioramento delle condizioni di vita sociale potrebbe veder messe in discussione le proprie capacità intellettuali o accusato di essere in malafede per una qualche oscura ragione.

Ebbene, in quel mondo virtuale così abilmente costruito a nostro uso e consumo dai media di proprietà della Grande Usura mondiale, gli economisti prezzolati ed i politici “camerieri dei banchieri” riescono a convincerci dalle pagine dei giornali e dagli schermi televisivi che tutto ciò rappresenta per noi una calamità.
Infatti la risposta che la società dà al progresso tecnologico è la creazione di disoccupazione, l’allontanamento delle persone dal loro posto di lavoro.

La tecnologia crea disoccupazione, perché affida alle macchine il lavoro svolto in precedenza da uomini. Se appena cento anni fa forse 80 persone su cento nel mondo erano ancora occupate in agricoltura, ed oggi due lavoratori con le potenti macchine agricole a disposizione riescono a dar da mangiare con il loro lavoro a cento persone, non si possono far morire di fame i 78 capifamiglia che sono stati allontanati dall’impiego. Se questo è il risultato, tanto vale distruggere le macchine e salvare gli uomini e le loro famiglie, rimettendo a lavorare le 78 persone, non vi pare?

Non esiste un problema economico, dal momento che si crea una maggiore quantità di merci e ricchezza disponibile.

È il rimedio adottato che è errato. Non si possono lasciare milioni di persone alla fame a causa del progresso tecnologico se la ricchezza prodotta è persino aumentata. Vanno diminuite le ore di lavoro permettendo a tutti di partecipare alla giusta ripartizione delle risorse disponibili, indirizzando in altri impieghi socialmente utili i lavoratori in eccesso.

“Mentre scrivo (febbraio 1933) il governo fascista ha preceduto gli altri in Europa e in America, raccomandando che quando le industrie hanno bisogno di meno addetti dovrebbero ridurre il numero delle ore giornaliere di lavoro per tutte le categorie, o solo per alcune in particolare, piuttosto che ridurre il numero delle persone occupate.
E invece di richiedere straordinari a persone già sul registro paga, dovrebbero assumere nuovi dipendenti.”
Ezra Pound in “Jefferson e/o Mussolini”.

Rileggiamo bene la definizione di economia: l’utilizzo di risorse scarse per soddisfare al meglio bisogni individuali e collettivi. Lo scopo dell’economia è dar da mangiare alle persone, non procurare lavoro alle macchine. Queste ultime servono ad alleggerirci ed anche a liberarci dal lavoro, aumentando allo stesso tempo la quantità di beni a nostra disposizione, non privandocene.

Il problema si presenterebbe nel caso di una diminuzione di risorse, ma noi stiamo addirittura aumentando la ricchezza con meno lavoro. Il problema quindi non esiste, è solo, volutamente e con tutte le peggiori intenzioni, male impostato.
Si sceglie di salvare le macchine e mandare alla fame i lavoratori, privati del lavoro, con le loro famiglie.

Quando i politici ci ripetono che dobbiamo investire in ricerca per combattere la disoccupazione, o non capiscono ciò di cui stanno parlando, o sono in malafede.
Purtroppo si danno entrambi i casi. La maggior parte di loro non fa altro che ripetere le teorie ufficiali imposte attraverso gli “esperti” economici su giornali e televisioni dai burattinai che tirano le fila, mentre i pochi che sanno agiscono in malafede ai danni del popolo.

La risposta data non è quindi errata, ma è quella giusta (per loro) imposta dai grandi Usurai per permettere l’accumulo della ricchezza prodotta nelle mani della classe dominante: essi stessi.
L’accumulo della ricchezza in mano di pochi, è esattamente l’opposto dell’obiettivo di una sana economia: la giusta ripartizione tra tutti delle risorse comuni.
I pochi che accumulano fortune immense, limitano i mezzi di sostentamento per i rimanenti membri della società.

“ . . il luogo migliore per la riserva del credito di una nazione è nel maggior numero possibile di tasche del popolo”.

“Il luogo più sicuro di deposito? Le braghe del popolo”.

Queste sono frasi pronunciate da due presidenti degli Stati Uniti che si sono battuti in favore del popolo contro gli Usurai internazionali: Thomas Jefferson ed Andrew Jackson. Non esistono più uomini come loro nell’attuale scena politica internazionale, piena purtroppo di mezze figure manovrate dai banchieri.

Come avviene la distribuzione dei beni prodotti?
Attraverso il mezzo distributivo per eccellenza: il denaro.
L’accumulo di denaro da parte di pochi e l’enorme prelievo fiscale, sottraendo mezzi di scambio alla circolazione, rendono impossibile la ripartizione delle merci che rimangono, abbondanti ed invendute, negli scaffali, impedendo lo sviluppo di una sana economia.

Mentre nella società virtuale i politici in maniera ipocrita e demagogica dichiarano come obiettivo principale il benessere della comunità, nella realtà si mira ad avvantaggiare una parte minoritaria, quella già ricchissima, a discapito della gran parte della popolazione restante.

Per quale motivo non si arriva a risolvere il problema di una equa distribuzione della ricchezza prodotta?

Perché lo stato è pesantemente infiltrato e condizionato da un ristretto gruppo di finanzieri internazionali che perseguono un obiettivo esattamente opposto: impossessarsi della ricchezza prodotta dal popolo per privarlo dell’indipendenza economica e mantenerlo sottomesso al proprio potere.

Lo scopo dell’economia viene stravolto dalle teorie degli “economisti”: i benefici, invece di raggiungere tutti i membri della società attraverso lo strumento monetario, vengono dirottati nella direzione voluta da chi detiene il controllo di tale strumento, i banchieri.
La moneta, da strumento distributore di benessere, viene trasformata in strumento di sfruttamento. Il denaro invece di servire il popolo, viene usato per servirsi del popolo.

“Come possono essere miopi (i politici) sino al punto da non rendersi conto che la disoccupazione è la misura del progresso tecnologico? Ripetiamo: la disoccupazione è la misura del progresso tecnologico”.
Parola di Joaquìn Bochaca.

Non licenziamenti quindi, ma riduzione dell’orario di lavoro, lasciando a tutti noi più tempo libero da dedicare ad attività creative, ad una accresciuta cura dell’ambiente, ad una costruttiva partecipazione alle decisioni comuni da adottare.
E questo non solo per una corretta politica sociale, che già di per sé rappresenta una motivazione nobile da perseguire, ma soprattutto per evitare che questa decisione vada contro gli stessi interessi della società.

È evidente che se un gran numero di persone rimane senza lavoro e senza retribuzione il consumo dei beni prodotti viene pesantemente condizionato. Le merci rimangono invendute negli scaffali dei negozi perché gran parte della popolazione non ha i quattrini per acquistarle. Viene a mancare non la volontà, quanto la possibilità di consumare, con grave danno per l’intero processo economico che rallenta, arrivando quasi a fermarsi, come nel periodo che stiamo attraversando.

Alla società viene impedito di consumare ciò che riesce così facilmente a produrre.

Quel che è peggio di questa situazione, è che non trova origine da un qualche evento fuori dal controllo umano come nel caso di un terremoto od una siccità senza fine, ma che viene costruita ad arte dall’attività disonesta dei banchieri per impedire una equa ripartizione della ricchezza nella società.

Non ci stancheremo di ripetere che la creazione di un mondo virtuale, come il nostro, serve soltanto ad attirare la nostra attenzione su argomenti futili, quali le vuote, quotidiane esternazioni dei politici sul nulla, per allontanarci dai veri problemi che ci riguardano, come questo del perfido sistema monetario, completamente ignorati o meschinamente camuffati dai media.
Sino a quando non riusciremo a “vedere” e capire i meccanismi di questo inganno mediatico, continueremo ad essere facili prede dei nostri aguzzini.

Per quanto riguarda la produzione di cibo in particolare, Jean Ziegler, parlamentare svizzero e relatore speciale all’Onu per il diritto all’alimentazione, nella sua opera “La privatizzazione del mondo”, diceva nel 2002 che sulla terra c’è abbastanza cibo per sfamare il doppio della popolazione planetaria, mentre continuano ogni giorno a morire di fame centinaia di migliaia di persone.

Le sue dichiarazioni mettono a nudo in tutta la sua crudeltà disumana la morte per denutrizione così abituale all’interno di ampie fasce di popolazione nei paesi sottosviluppati e l’apparizione del fenomeno in maniera sempre più marcata anche nel mondo occidentale.

Incrementare la produzione alimentare non costituisce un problema, grazie ancora all’aiuto della tecnologia e di milioni di braccia giovani e forti che non chiedono altro che poter lavorare e rendersi utili alla società per integrarsi ed avere giustamente diritto ad una retribuzione.
Un adeguato stipendio mensile non è altro che quella equa ripartizione, che avviene attraverso la moneta, della ricchezza della quale stiamo parlando.

Ecco l’opinione di Joaquìn Bochaca dal suo “El enigma capitalista”, scritto oltre 30 anni orsono:

“ . . le macchine e l’uso delle risorse della Natura diminuiscono sempre più il bisogno del lavoro umano, mentre incrementano la produzione di ricchezze, in beni e servizi. Di conseguenza, le persone espulse dal lavoro retribuito dalle macchine, devono ricevere il denaro sufficiente a comprare le merci prodotte dalle macchine che le hanno allontanate dal lavoro. Questo denaro, chiaramente, non deve essere sottratto alle tasche di altre persone, anche se occultando il prelievo tra i tributi, perché allora l’unica cosa che avremmo fatto sarebbe di aver rubato agli uni per pagare gli altri, e la nostra società è sufficientemente sviluppata da non aver necessità di giocare a Dick Turpin; non dobbiamo permettere che i disoccupati siano un peso per coloro che lavorano né che le macchine siano una maledizione quando dovrebbero essere considerate, al contrario, la benedizione dell’Umanità, al liberarla da molte ore di lavoro e permettere agli uomini di dedicare quelle ore ad attività culturali od al tempo libero creativo, al giardinaggio, agli sport, escursionismo, studio, etc.”

Ed ancora:

“Nonostante quindi i meravigliosi progressi delle macchine e gli incrementi, quantitativi e qualitativi del nostro “manpower”, ci incontriamo in piena crisi, per usare il termine consacrato. Questa crisi, e tutte quelle che la precedettero, presenta la sorprendente caratteristica che l’abbondanza generale di tutto ciò che è necessario per la vita degli uomini coincide con la miseria diffusa. Forse l’espressione “miseria” può sembrare eccessiva. Non lo sembrerà tanto se ci fermiamo a considerare che gran parte dei nostri concittadini, in tutta Europa, vivono . . . sempre nell’aspettativa timorosa del fine del mese con le scadenze delle rate, mentre migliaia di imprese si trovano in situazioni fallimentari precisamente perché una quantità ingente di quelle scadenze non saranno pagate e milioni di famiglie che vivono in quella situazione di equilibrio instabile, passano lentamente ad ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati. C’è produzione eccessiva di tutto: di prodotti agricoli, di manufatti, di carbone, acciaio, cemento, minerali di ferro, di rame, di stagno, in una parola: c’è troppo di tutto. Perché dunque queste ricchezze non trovano compratori? Non certamente per cattiva volontà dei compratori, è chiaro, dal momento che quelle ricchezze non possono essere distribuite gratuitamente. E lì è l’origine del problema: i consumatori non possono arrivare alla produzione; non possono comprare ciò che hanno prodotto. Non ci sono soldi . .

È un fatto innegabile che in Occidente, grazie alle nostre macchine moderne ed alla forza della natura sottomessa all’uomo, le ricchezze aumentano allo stesso tempo che diminuisce il numero dei lavoratori occupati nel produrle. Si ha quindi allo stesso tempo un aumento della produzione e della disoccupazione. Però, come i disoccupati, per semplice definizione, sono i non retribuiti, questi disoccupati sono sottratti all’esercito dei consumatori, e le ricchezze prodotte si ammucchiano inutilmente, e presto si fa sentire la necessità di frenare la loro fabbricazione, arrivando incluso alla loro distruzione.

Questo fenomeno gli economisti classici lo chiamano, amabilmente, crisi. Però non è una crisi. È, semplicemente, una rivoluzione. La Rivoluzione Industriale.

Basandoci in fatti, crudi e oggettivi, possiamo dimostrare che la macchina alleggerisce, come minimo al 95%, il lavoro dell’uomo.
E non solo lo alleggerisce, ma anche, in generale, lo fa meglio.
Parliamo, chiaramente, di un lavoro industriale, in serie, senza nessuna implicazione artistica. Incluso, oseremmo dire che il 95% è una valutazione prudente. Ciononostante, lasciamola così, come riconoscimento al lavoro umano necessario al rifornimento delle macchine, anche se questo lavoro, spesso è ugualmente realizzato da altre macchine.

Chiediamoci onestamente, qual è l’obiettivo della Macchina? E se riusciamo a liberarci di tabù e pregiudizi, vedremo che la risposta concreta è questa:

L’obiettivo della Macchina è rifornire il mercato nella maggiore e migliore quantità e qualità possibile di merci e servizi, risparmiando al massimo il lavoro meccanico umano.

Dal momento che la Macchina economizza il lavoro, la sua funzione primaria consiste conseguentemente nel buttare gli operai fuori dal lavoro. Se la frase può sembrare eccessivamente brutale per i nervi scoperti di questa nostra epoca, possiamo presentarla in modo più soave: è funzione della macchina alleggerire il carico di lavoro all’operaio. È evidente che l’operaio così “alleggerito” si ritrova senza lavoro – o quasi senza lavoro da svolgere – e che la sua azienda può far a meno di lui. È non è meno evidente che se la Rivoluzione Industriale non viene accompagnata da una reale Rivoluzione Distributiva, o Retributiva, la benedizione che dovrebbe essere la Macchina si trasforma in una maledizione. Anche se non possiamo dar colpa alla macchina, né a James Watt”.

Sono parole ancora ben attuali, purtroppo, perché la classe dominante non ha interesse a cambiare questo stato di cose.

La situazione è anche peggiorata.
La rivoluzione industriale deve essere accompagnata da una equa ripartizione tra il popolo lavoratore del benessere prodotto dall’avanzamento tecnologico, mentre oggi quella ricchezza è appannaggio delle grandi multinazionali.

Chi paga i costi della ricerca?
Noi, il popolo.
Come ci ha chiaramente spiegato Noam Chomsky nei suoi libri, lo studio e lo sviluppo degli armamenti, per esempio, sono interamente coperti dalle tasse dei cittadini, mentre i benefici della ricaduta tecnologica sono appannaggio delle grandi multinazionali. Gli aerei delle compagnie private che solcano i cieli planetari trasportando passeggeri, non sono altro che mezzi militari trasformati, con l’aggiunta dei posti a sedere, in aerei civili. O pensate che le aziende private possano da sole sostenere i costi dell’avanzamento tecnologico dell’aviazione civile?

Chi ha finanziato la nascita della Nasa, la ricerca, gli shuttle ed i voli spaziali?

Chi trae beneficio dalla costruzione dei nuovi materiali derivanti dalla ricaduta tecnologica dell’attività dell’agenzia spaziale pubblica?

Da dove provengono le enormi quantità di denaro necessarie all’acquisto di sommergibili, carri armati, armi munizioni?

Dalle imposte dei cittadini.

Chi produce e vende le armi?
Le grandi aziende private degli armamenti.

Tutto ciò non assume l’aspetto di un ben organizzato travaso di denaro dal popolo alle multinazionali del settore?

E, da questo punto di vista, come dobbiamo interpretare queste sempre più frequenti “missioni di pace”?
Ma parlare di multinazionali è fuorviante, sono termini astratti, cosiddette “persone giuridiche”, fantasmi senza contenuto umano. È la terminologia creata nella società virtuale per confonderci, impedirci di capire che il benessere prodotto va a finire nelle tasche di uomini in carne ed ossa come noi che posseggono e controllano le grandi corporations attraverso i pacchetti azionari di maggioranza, e condizionano con il loro potere economico e finanziario l’emissione di leggi e norme che salvaguardano unicamente i loro privilegi, stravolgendo l’obiettivo principe di una sana ed onesta economia: l’equa distribuzione della ricchezza prodotta.

La grande finanza internazionale, proprietaria delle multinazionali, condiziona così pesantemente la classe politica di ogni paese, da avere ormai il potere di indicare le linee guida dello sviluppo industriale e sociale.

La plutocrazia plasma la forma della società.

Nel periodo nel quale stiamo vivendo, appare sempre più evidente un prestabilito azzeramento della classe media occidentale mediante la negazione del credito alle piccole e medie imprese, ed il contemporaneo drammatico inasprimento dell’imposizione fiscale.

Siamo già passati a prendere in esame la distribuzione dei beni.

continua…..

 

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Paolo MALEDDU